lunedì 21 luglio 2008

MIGUEL MAÑARA


DON MIGUEL: Vedo con piacere, signori, che mi volete tutti un gran bene, e sono molto commosso dall'augurio che mi fate così di cuore di vedere la mia carne e il mio spirito bruciare di una nuova fiamma altrove, ben lontano di qui. Vi giuro sul mio onore e sulla testa del vescovo di Roma che il vostro inferno non esiste, che non è mai arso se non nella testa di un Messia pazzo o di un cattivo monaco. Ma noi sappiamo che ci sono, nello spazio vuoto di Dio, dei mondi illuminati da una gioia più calda della nostra, delle terre inesplorate e bellissime, e lontane, lontanissime da questa in cui siamo. Scegliete dunque, vi prego, uno di questi lontani incantevoli pianeti, e speditemi laggiù, questa notte stessa, attraverso la porta vorace della tomba. Perché il tempo è lento a passare, signori, terribilmente lento, e sono stranamente stanco di questa cagna vita. Non raggiungere Dio è senz'altro un'inezia, ma perdere Satana è grande dolore e noia immensa, in fede mia.
Ho trascinato l'Amore nel piacere, e nel fango, e nella morte; fui traditore, bestemmiatore, carnefice; ho compiuto tutto quello che può fare un povero diavolo d'uomo, e vedete! Ho perduto satana. Mangio l'erba amara dello scoglio della noia. Ho servito Venere con rabbia, poi con malizia e disgusto. Oggi le torcerei il collo sbadigliando. E non è la vanità che parla per bocca mia. Non mi atteggio a carnefice insensibile. Ho sofferto, ho sofferto molto. L'angoscia mi ha fatto cenno, la gelosia mi ha parlato all'orecchio, la pietà mi ha preso alla gola. Anzi, furono questi i meno bugiardi dei miei piaceri.
Allora! La mia confessione vi sorprende; sento ridere tra di voi. Sappiate dunque che non ha mai commesso un atto veramente ignobile chi non ha pianto sulla sua vittima. Certo, nella mia giovinezza, ho cercato anch'io, proprio come voi, la miserevole gioia, l'inquieta straniera che vi dona la sua vita e non vi dice il suo nome. Ma in me nacque presto il desiderio di inseguire ciò che voi non conoscerete mai: l'amore immenso, tenebroso e dolce. Più di una volta credetti di averlo afferrato: e non era che un fantasma di fiamma. L'abbracciavo, gli giuravo eterna tenerezza, esso mi bruciava le labbra e mi copriva il capo con la mia stessa cenere,e, quando riaprivo gli occhi, c'era il giorno orrendo della solitudine, il lungo, così lungo giorno della solitudine, con un povero cuore tra le mani, un povero, povero, dolce cuore leggero come il passerotto d'inverno. E una sera la lussuria dall'occhio vile, dalla fronte bassa, sedette sul mio giaciglio, e mi contemplò in silenzio, come si guardano i morti. Una bellezza nuova, un nuovo dolore, un nuovo bene di cui presto ci si sazi, per meglio assaporare il vino di un male nuovo, una uova vita, un infinito di vite nuove, ecco quello di cui ho bisogno, signori: semplicemente questo, e nulla più.
Ah! Come colmarlo, quest'abisso della vita? Che fare? Perché il desiderio è sempre lì, più forte, più folle che mai. E'come un incendio marino che avventi la sua fiamma nel più profondo del nero universale!
E' un desiderio di abbracciare le infinite possibilità!
Ah, signori! Che facciamo mai qui? Cosa guadagnamo?
Ahimè! Come'è breve questa vita per la scienza! E quanto alle armi, questo povero mondo non avrebbe di che nutrire gli oscuri appetiti di un padrone come me; e quanto alle opere buone, voi sapete che cani rognosi, che puzzolente verminaio notturno siano gli uomini; e certo sapete anche voi che un Re è ben povera cosa quando Dio se ne è andato.
E.V. de Milosz

Nessun commento: